CANTÙ - Per chi oggi ha quasi quarant'anni la nevicata dell'85 è uno di quei ricordi imprescindibili dell'infanzia, come i Mondiali dell'82, Černobyl o la caduta del Muro. Io avevo otto anni e non avevo mai vista così tanta neve in vita mia e, sarà per l'altezza dovuta all'età, sarà perché la memoria non è un libro scritto ma un essere animato che muta le cose, quella coltre bianca la ricordo altissima, ben più della mia statura anche se, bollettini meteo alla mano, così probabilmente non era. Abitavo in campagna e, per raggiungere la strada pulita dai mezzi del Comune, bisognava percorrere almeno mezzo chilometro.
Isolati in un candore accecante a mio padre e ai miei fratelli non restò altro da fare che spalarla a mano, metro dopo metro, creando una sorta di trincea bianca in cui noi bambini correvamo divertiti. Accanto alla preoccupazione di mia madre per la tenuta del tetto di casa, sottoposto a uno sforzo eccezionale, fu la prima volta che toccai con mano, con un inconfessato piacere, la fragilità di noi tutti: Cantù era letteralmente bloccata, non solo le scuole ma anche le aziende e le botteghe, per non parlare del traffico. Vista con gli occhi di un bambino era come un'influenza collettiva: qualche linea di febbre, niente di grave insomma, ma che dava la possibilità di saltare impuniti la scuola. Non era male, anzi negli anni a venire invocai più volte un'altra nevicata dell'85.
Quella volta fu anche la prima che toccai con mano il concetto di solidarietà: con noi si era fermato a dormire, ospite, Arialdo Ronchetti, un nome che a Cantù non ha bisogno di presentazioni. In quegli anni, non ricordo se avesse già quella sua famosa ochetta bianca ammaestrata che chiamava “Clo-Clo”, di certo non aveva una casa ma solo una Cinquecento blu carica di attrezzi acquistati in mezza Europa e in un viaggio in Egitto – meta esotica per l'epoca – dove era chiamato per le sue non comuni doti da ebanista. Un'auto che era anche un po' casa e un po' bottega. Dormì da noi, al caldo, e alla mattina, vista quella coltre, fu tra i primi a darsi da fare con la pala. Ma lo fece a modo suo: in calzoni corti e a petto nudo, anzi “a torso nudo” diceva lui per qualche reminiscenza da cinegiornale Eiar.
Come facesse restò un mistero, a lungo discusso nei bar canturini, di certo provava un certo compiacimento nel vedere gli sguardi stupiti dei passanti di fronte a quella resistenza al freddo e a quel suo torace possente che spesso dipingeva per risultare ancora più eccentrico. Il mio stupito lo era di sicuro mentre lo vedevo spalare quell'ormai famosa nevicata. Stupito e riconoscente.
C. C.
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