RUBRICA SOSTENIBILITÀ – L’insostenibile spinta all’acquisto: il mondo “fast fashion”

lunedì, 13 novembre 2023

Un impulso irresistibile: potremmo descrivere così tanti acquisti fatti, ogni giorno, online. Tanti i settori che raccolgono il nostro interesse, tra questi uno particolarmente attraente: l’abbigliamento, meglio se con capi a prezzi accessibili. Abiti alla moda a costi ridotti che ci tentano, quotidianamente, online. Ma cosa si nasconde dietro il fenomeno fast fashion?

Lo chiediamo a Pasquale Coppolella, consulente aziendale sulla sostenibilità.

Dottor Coppolella, ci sono numerose piattaforme online che vendono capi di abbigliamento a prezzi stracciati. Come riescono a farlo?

Partiamo subito dicendo che non tutte le piattaforme on line propongono capi di abbigliamento a prezzi stracciati. Di massima, sono quelle legate a marche che propongono a prezzi stracciati i loro prodotti anche in negozi tradizionali, ove comunque sicuramente l’online permette di abbassare ulteriormente il prezzo, perché i costi di gestione (affitto e personale di vendita Ndr) sono molto minori. Parliamo del cosiddetto “fast fashion”, cioè ‘moda veloce’, in altri termini quelle aziende di abbigliamento che producono e vendono capi economici e “alla moda”, proponendone continuamente di nuovi: una moda economica e con una produzione flessibile, che mette in crisi il modello tradizionale basato sulla stagionalità Primavera-Estate e Autunno-Inverno. 80 miliardi di capi di ‘moda veloce’ sono prodotti ogni anno. Secondo stime recenti, il 30% degli abiti acquistati resta appeso negli armadi, mai indossato. Una percentuale equivalente finisce ogni anno in discarica dopo essere stata utilizzata, in media, meno di cinque volte, ma spesso anche dopo un solo uso. In totale 14 milioni di tonnellate di abiti e tessuti usati sono gettati via ogni anno nel mondo.

Ovviamente dove la variabile prezzo gioca un ruolo importante, come nel fast fashion, i materiali non possono certo garantire uno standard qualitativo alto e la manodopera deve essere reperita nelle zone a più basso costo dei salari, con le implicazioni sociali del caso. Per completezza, bisogna anche aggiungere che i costi bassi che riescono ad ottenere queste marche, sia per l’acquisto dei materiali, che per la manodopera, sono principalmente legati ai grossi volumi che movimentano. I numeri sono impressionanti. Miliardi di capi, appunto. Da addetto ai lavori mi sono trovato a visitare in area asiatica i produttori di queste marche e posso dire che le logiche produttive sono basate su economie di scala, che non trovano nessuna comparabilità con la moda tradizionale, di stampo sartoriale. Fondamentalmente, le stesse economie di scala utilizzate per l’elettronica che, lavorando su numeri di dimensioni comparabili a quelli del fast fashion, riesce ad assicurare prezzi estremamente bassi. Ovviamente la vicinanza dei due business, fast fashion ed elettronica, è tale anche per quanto riguarda le problematiche ambientali e la sostenibilità in generale.

Le marche suddette per il loro profitto giocano appunto sui volumi: se vendo 10 milioni di capi e su ciascuno di essi ci guadagno “solo” 50 centesimi, avrò un guadagno di 5 milioni di euro. Se non ci fossero i volumi, determinati dalla nostra corsa all’acquisto, spinti dalla convenienza, tutto questo non sarebbe possibile. Per l’elettronica è la stessa cosa!

Quali sono i rischi dei lavoratori che collaborano con queste realtà?

I rischi non sono solo per i lavoratori, ma per tutto l’ambiente in cui questi lavoratori operano. Ricordiamo innanzitutto che il mondo della moda, negli ultimi decenni ha intrapreso un massiccio processo di delocalizzazioni produttive verso aree a basso costo di manodopera, principalmente in Asia e in Africa. Rispetto alle altre industrie, avendo i prodotti moda una forte componente di manodopera, la convenienza economica di operazioni di delocalizzazione è stata del tutto evidente, sin dall’inizio. Importanti investimenti in loco in tecnologia sono stati fatti in primis dai brand, trasferendo macchinari o comprandone nuovi, ma successivamente anche dai produttori locali. Una valanga di tecnici esperti si sono trasferiti in quelle aree per insegnare e controllare, determinando in questo modo un impoverimento impressionante del know-how dell’Occidente, padre della manifattura della moda.  Ecco, una prima considerazione la possiamo fare sull’aspetto sostenibilità sociale e non riguarda la salvaguardia della manodopera nei Paesi, quanto piuttosto l’impoverimento del tessuto manifatturiero nazionale. L’Italia è stata una protagonista incontrastata della moda nel secolo scorso, creando know-how e benessere sociale, legato alla fiorente industria manifatturiera. Avendo delocalizzato una buona parte delle produzioni, interi distretti sono stati annullati, con impatti sociali devastanti e perdita di know-how. 

Le delocalizzazioni, inizialmente molto focalizzate sul mondo Cina, hanno successivamente avuto un’evoluzione importante, con trasferimenti di volumi dalla Cina verso Paesi più poveri. Lo spostamento massiccio è avvenuto verso le aree asiatiche poverissime, quali il Bangladesh, il Pakistan, la Cambogia, il Laos, il Vietnam, nonché l’Indonesia. In queste aree le condizioni di lavoro possono essere molto difficili, i salari medi non superano spesso i 100 $ al mese e le condizioni ambientali legate all’inquinamento per la produzione di tessuti sono proibitive, compromettendo in maniera permanente la qualità dell’aria, dell’acqua e del suolo e spingendo in maniera decisa il settore dell’agricoltura verso il cotone a scapito di colture che generano cibo per la popolazione, cibo per il quale è aumentata la dipendenza da altri Paesi magari a prezzi elevati.

A tutto questo va aggiunto che, oltre allo sfruttamento della manodopera, le lavorazioni vengono fatte il più delle volte in ambienti malsani e senza le più elementari norme di sicurezza, con tragedie annunciate come quella avvenuta a Dakha in Bangladesh il 24 Aprile 2013: un palazzo intero, il Rana Plaza factory complex, è crollato causando la morte di 1.138 uomini, donne e bambini e 2.515 feriti, che confezionavano abbigliamento per grandi aziende della moda, stipati in condizioni di totale mancanza di sicurezza.


Tuttavia, acquistare su questi siti spesso permette a famiglie in difficoltà di poter comprare capi di abbigliamento che difficilmente potrebbero permettersi altrove. Un cane che si morde la coda?

E’ certo un po’ un cane che si morde la coda.  Ma solo un po’!.  Come ho detto, circa il 30% di quello che acquistiamo a basso prezzo resta appeso negli armadi, mentre un altro 30% viene buttato dopo essere stato indossato solo 5 volte! Siamo sicuri di non essere vittima di qualcosa di incontrollabile, piuttosto che solo bisognosi di prezzi stracciati a tutti i costi?  Io credo che per una buona parte si tratti di un problema di “assuefazione cross-generazionale”, un bisogno che si scatena, irrefrenabile, nel momento in cui mettiamo piede in una delle catene di moda a basso costo o accediamo al loro sito, spinti dal bisogno di novità costante e quindi necessità  di averla, ad un prezzo che a volte sembra perfino incredibile, tanto può essere basso. Oggi, fra le novità che possiamo trovare in nome della sostenibilità, c’è quella che se si riporta un capo usato in negozio, anche se comprato online, si ottiene uno sconto su un capo nuovo, il che genera domanda non necessaria, perché probabilmente quel capo nuovo non l’avremmo comprato, generando così potenziali nuovi rifiuti. Il mio pensiero è quello di gestire i propri budget sul vestiario in modo più pragmatico: zero spreco negli acquisti (e ho già risparmiato oltre il 30%) e con quello che recupero acquistare capi che mi garantiscono durata, che è la parola chiave dei tempi moderni: la stessa parola sostenibilità si riferisce a qualcosa che dura nel tempo.   

S.D.D.

 

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