L’INTERVENTO – Aree Vaste: canturini benvenuti nel XXI secolo

venerdì, 29 luglio 2016

La proposta avanzata e poi ritirata dalla Regione Lombardia di istituire i famigerati “cantoni”, tecnicamente degli enti intermedi tra comune e Regione, ha avuto l’unica buona conseguenza di promuovere un dibattito sul senso dell’organizzazione territoriale e culturale delle realtà locali. Alcuni sono caduti nella trappola entrando nel merito della proposta (tra questi, il sindaco di Cantù) e sono quindi finiti nel gioco fanciullesco di aggiungere e togliere comuni alla proposta di Maroni, in una sorta di Risiko territoriale di mezz’estate.

In effetti, l’unico senso da attribuire allo spezzatino leghista della Regione Lombardia si riassume nel latino divide et impera. Quella proposta appartiene a un’era giurassica della politica, e non tiene conto delle reali tendenze sociali ed economiche che stanno caratterizzando la nostra regione da ormai un decennio, da quando si è sviluppata la più grande crisi economica dal 1929, quella che il sociologo Mauro Magatti ha chiamato "l’infarto dell’economia mondiale”, la fine del capitalismo tecno nichilista: la chiusura di un modello di sviluppo al quale non siamo ancora stati in grado di dare una via d’uscita definitiva.

La proposta maroniana prevede una serie di piccole aggregazioni territoriali, tutte a corona del grande centro propulsivo della città milanese. Appunto, un gigante in mezzo a tanti piccoli cortigiani.

Sembra quindi una proposta indifferente al nuovo assetto che la realtà regionale sta assumendo, ormai da diversi decenni, e che alcuni sociologi hanno denominato città infinita: un continuum di servizi, produzione, centri di formazione e di assistenza sanitaria di grande eccellenza che esorbitano ormai dal centro storico milanese, dando vita a una lunga metropoli capace di ridisegnare il senso dell’abitare, e persino l‘idea stessa di comunità. La città infinita viene definita da tali studiosi come il regno delle possibilità: un ambito vasto e complesso in cui dei legami sociali lassi offrono possibilità di “scoprire nuove occasioni di esperienza e di azione”.

Anche le forme del conflitto non sono più quelle del passato industriale. Come scriveva Dahrendorf, possiamo parlare di “una società delle classi senza lotta e di lotta senza classi”. Vengono meno le appartenenze totalizzanti. La classe passa da soggetto storico a oggetto di analisi. Il territorio sub metropolitano e il suo insediamento sociale, la provincia, non possono più essere definite periferia, ovvero area sottoposta al dominio biopolitico della città. Si perde la nozione di centro, e con essa, quella di periferia.

Da questo punto di vista, il dibattito successivo alle elezioni comunali del 2016, sul voto della periferia (soprattutto relativo alla città di Roma) è davvero desolante e in ritardo storico, evidente che chi lo ha sostenuto dimostra una scarsa intelligenza del reale.

Più che di centro geopolitico, si inizia a parlare di autonomie funzionali: il centro fieristico di Rho –Pero, l’Expo, Malpensa, Linate, Orio al Serio, alcun grandi centri commerciali, le università, i centri di ricerca, i grandi centri ospedalieri, come li troviamo disseminati fuori e non dentro i confini della città di Milano, (i confini amministrativi della vecchia municipalità).

E in questo quadro, la fascia pedemontana che va da Varese a Brescia si mostra come un sistema produttivo “maturo”: 400 mila e passa imprese produttive, e uno sviluppo tecno scientifico di prim’ordine, di fianco a comunità anche di dimensioni infime.

Un sistema con 1 milione 500mila lavoratori, 4,5 milioni di abitanti, 3,5 milioni di autoveicoli. I conflitti ora avvengono tra territori, per la disponibilità di risorse, non solo finanziarie, ma anche relazionali, culturali, tecnologiche.

Ecco , questo continuum offre realtà storicamente molto significative, che hanno svolto una funzione produttiva per tutto il Novecento, in rapporto con Milano, che ora "sono mangiate" e nello stesso tempo "mangiano" Milano, stemperano la loro specificità, si scontrano con Milano, come sostiene Aldo Bonomi.

Si pensi alla vicenda della nostra stazione di Cantù Asnago. Siamo di fronte al quartiere più degradato della città, ma è anche il primo ambito urbano canturino che il visitatore incontra, se giunge in città via treno, o dalla Milano - Meda. La ragione di questa condizione sta proprio nel successo della linea ferroviaria, che ottiene ogni anno un aumento del traffico di pendolari. Migliaia di persone che vanno a lavorare, a studiare, a divertirsi nella città di Milano. Essi portano ricchezza a Milano, contribuiscono a crearla con il loro lavoro, e tuttavia sono addirittura penalizzati per questo motivo. Come Asnago, in ogni paese posto su una linea di comunicazione da e per Milano il problema si riproduce, centinaia di volte. Ecco, lasciate a se stesse, tutte le Asnago della Lombardia non otterranno mai nulla. Inserite in un unico, o quantomeno nel più vasto e possibile aggregato amministrativo, capaci di ricontrattare il proprio ruolo con la grande città, potrebbero ottenere qualcosa. Cosa? Investimenti, ad esempio, per riqualificare le aree ferroviarie, per rendere più efficiente il trasporto pubblico, per creare un processo di riconversione e ridistribuzione della ricchezza entro la nuova conurbazione.

Per questa ragione, penso sia davvero tempo perso ritenere che il problema sia se il lago di Como debba restare o meno unito, se Como debba andare con Lecco o con Varese. E così via almanaccando. Il vero problema è che la politica locale dovrebbe immaginare e proporre altra e più vasta aggregazione (d’altra parte, non vale il principio della sussidiarietà?) e che tale aggregazione sia la più ampia possibile, per dare non solo voce, ma anche potere ai centri minori di questa città infinita.

Il nuovo contesto economico è davvero sorprendente, e ci offre indubbie opportunità: è quello della sharing economy, entro la quale troviamo un nuovo modo di vedere la creazione della ricchezza, non solo e non più fondato esclusivamente sullo specialismo. Le polemiche canturine, in tale contesto, ad esempio quella orchestrate dal nostro primo cittadino, sono archeologia politica. Se ripensiamo poi alla proposta di fondare una regione autonoma, sulla quale addirittura egli ebbe il coraggio di fare pronunciare il Consiglio comunale in un dibattito imbarazzante e “osceno” (etimologicamente parlando) ci dovrebbe far sorridere, e invece è triste come tutto il quadriennio che la città ha passato sotto la guida civica.

Spetterà alla politica cittadina, dal prossimo 2017 in avanti, muoversi nella consapevolezza che tale è le posta in gioco: costruire relazioni, politica istituzionale, progettualità capaci di dare voce e spazio alle ambizioni di una cittadina di 40 mila abitanti, fino ad ora mortificata da un disegno politico vecchio, ancora impigliato nei resti di una cultura novecentesca che tarda a passare, nel rancore leghista e isolazionista, nel civismo chiuso e autoreferenziale.

Noi siamo pronti.

Concludo con una affermazione del sociologo Aldo Bonomi, che a Cantù ben conosciamo (svolse anni or sono uno studio sul distretto del mobile): “Nessuna nostalgia per ciò che non è più, si parte dalla storia dello sviluppo di comunità per ragionare della comunità che viene, nella città che si fa smart city, nodo di reti, e storico punto di riferimento per le politiche di welfare, anche queste in metamorfosi nella scarsità dei trasferimenti pubblici. Occorre condividere, ripartire dal basso, dalla metamorfosi dei servizi, nelle comunità locali guardando allo storytelling della smart city che viene avanti”. (Aldo Bonomi 2016)

Cari canturini, benvenuti nel XXI secolo.

#CantùGuardaAvanti

 

Filippo Di Gregorio

candidato sindaco alle primarie del centrosinistra

 

 

Le lettere pubblicate su questo giornale sono opera di singoli i quali si assumono la responsabilità delle opinioni espresse – non necessariamente condivise da Il Canturino news

 

 

il Canturino NEWS - supplemento quotidiano a Lario News, testata giornalistica registrata (Tribunale LC n. 234/2015)